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Il cambiamento di regime economico metterà probabilmente a dura prova l’attuale struttura del mercato

Trevor Noren, Thematic Strategist
2022-08-31
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Le opinioni espresse sono quelle degli autori alla data di redazione. Altri team di gestione possono esprimere opinioni differenti e prendere decisioni di investimento diverse. Il valore finale dell’investimento potrà essere superiore o inferiore a quello dell’investimento iniziale. I dati di terzi utilizzati nel presente documento sono considerati affidabili, tuttavia la loro accuratezza non è garantita.

La potenziale rottura della correlazione negativa azioni/obbligazioni esemplifica il perché

Di recente, ho affrontato il tema della rotazione dal growth al value e delle ragioni che portano me e alcuni dei miei colleghi a supporre che sarà la volatilità, piuttosto che un’agevole transizione di leadership, a definire i mercati. La nostra tesi è radicata nel fatto che questioni macroeconomiche di enorme portata stanno incombendo sui mercati e che le stesse potrebbero innescare violenti e repentini cambiamenti nelle convinzioni degli investitori. All’inizio di questo mese, John Butler, Macro Strategist, ha esaminato a fondo una di queste riflessioni: la correlazione negativa tra azioni e obbligazioni diventerà positiva?

Dall’inizio del nuovo secolo, azioni e obbligazioni hanno mantenuto un’ostinata correlazione negativa, un dato su cui sono state fondate le principali dinamiche di investimento tra le diverse asset class. Di recente il gestore Mark Sullivan ha sottolineato che “quasi tutti i più grandi investitori adottano delle logiche mutuate dal risk parity, dal momento che si basano sull’ipotesi che le obbligazioni agiranno come un importante elemento di diversificazione in periodi di crescita debole e di tensione economica.” Eppure la storia ci ricorda che la duratura correlazione negativa odierna è un’anomalia, non la norma. Stando ai calcoli di Golman Sachs che ci riportano al 1900, una sostenuta correlazione negativa ha avuto luogo unicamente durante due contesti di mercato prima della fine degli anni novanta del secolo scorso. Inoltre, non si sono registrati periodi di correlazione negativa più lunghi di un decennio, né sono stati toccati livelli tanto negativi come quelli visti negli ultimi vent’anni.

Dall’inizio della pandemia, la correlazione (su una finestra mobile di 12 mesi) tra l’S&P 500 e il Treasury decennale è diventata positiva. Se tale cambiamento si rivelasse strutturale (e, pertanto, duraturo), le implicazioni in termini di investimento tra le asset class sarebbero enormi. Potrebbe portare gli investitori a riprezzare il rischio sui mercati obbligazionari. Potrebbe compromettere la mentalità di “buy-the-dip” (N.d.T: acquisto nelle fasi di ribasso) che per anni ha soppresso la volatilità azionaria. E potrebbe incrementare la domanda di asset class alternative e decorrelate, con gli investitori alla ricerca di nuove soluzioni di diversificazione.

A prescindere dal risultato, la considerazione che possiamo trarre dall’analisi di Butler è chiara: la volatilità è praticamente inevitabile quando importanti dinamiche di mercato corrono sul filo del rasoio. Abbiamo a che fare con un contesto di mercato caratterizzato da rischi e premi elevati: ciò richiede creatività e umiltà. Come ha consigliato saggiamente il gestore Michael Carmen: “Espandi i tuoi orizzonti [e] fai attenzione là fuori.”

Il futuro della correlazione azioni/obbligazioni dipenderà dalla natura temporanea o persistente dell’inflazione. Le difficoltà di approvvigionamento determinate dal COVID hanno indubbiamente esacerbato l’impennata dell’inflazione. Tuttavia, sembra sempre più probabile che le dinamiche strutturali continuino a limitare l’offerta in tutte le economie globali, dalla decarbonizzazione al rapido invecchiamento della popolazione nei Paesi sviluppati, fino al contraccolpo sulla globalizzazione. E se l’offerta limitata alimenta l’ostinarsi dell’inflazione, provocherà un nuovo regime di politica monetaria delle banche centrali. Per citare John:

Dal 1999, le economie hanno effettivamente oscillato fra due mondi: “goldilocks” (ripresa e zero inflazione) e compensazione (crescita più debole e zero inflazione). Le banche centrali inseguivano la crescita. E, se le banche centrali inseguivano la crescita, c’era una correlazione negativa e stabile tra i rendimenti azionari e obbligazionari […]. Se, in futuro, l’offerta si facesse più limitata, le banche centrali riprenderebbero a tentare di manipolare la domanda come uno strumento per adeguare l’inflazione […]. Di conseguenza, le banche centrali non saranno altrettanto veloci nel reagire ai primi segnali di domanda più debole. Al contrario, dovranno essere certe che la domanda più debole stia rallentando l’inflazione. La loro reazione in termini di politica monetaria sarà in ritardo rispetto ad alcuni punti di svolta. Nel nuovo regime, a volte, le banche centrali diventeranno una fonte di volatilità piuttosto che un compressore […]. In [quel] mondo, i rendimenti azionari e obbligazionari non saranno più correlati negativamente, ma potrebbero essere per gran parte del tempo correlati positivamente.

Recentemente, il Macro Strategist Michael Medeiros ha condiviso un grafico che mostra lo sconcertante crollo della crescita della forza lavoro statunitense con l’ondata di pensionamenti istigata dalla pandemia (Figura 1). Come notato di recente dal gestore obbligazionario Loren Moren, questo fatto già da sé potrebbe determinare una Federal Reserve meno reattiva prima di quanto previsto dal mercato:

Ritengo che il mercato sia decisamente troppo noncurante e che si stia basando su vecchie dinamiche […]. Non credo che gli attori di mercato pensino che la Fed resterebbe con le mani in mano a guardare un calo del 10% delle azioni o un ampliamento di 50 bps sulle obbligazioni societarie investment grade, ma penso non abbiano scelta. Paradossalmente, ne hanno quasi bisogno per rallentare l’inflazione e potenzialmente attirare i pensionati/altri individui nuovamente verso la forza lavoro. E ciò significa che dovremmo prezzare il rischio di una mossa ben più ampia.

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Le implicazioni di una Fed meno reattiva si estendono ben oltre l’obbligazionario. Nelle ultime settimane, i movimenti sul mercato azionario hanno messo in luce come la mentalità di “buy-the-dip” sia viva e vegeta. La settimana conclusasi il 28 gennaio ha visto la ventesima più grande divergenza tra volatilità infragiornaliera e storica (basata sui dati di chiusura) degli ultimi 40 anni, stando a Gordy Lawrence, Derivatives Strategist. Con ogni probabilità, gli investitori in ETF hanno giocato un ruolo in questo movimento di mercato infragiornaliero estremo. Come riportato recentemente dalla CNBC, l’ETF S&P 500 SPDR ha registrato da quattro a cinque volte i suoi volumi medi giornalieri nel corso di quella stessa settimana.

Ancora una volta, per parafrasare Loren, gli investitori azionari stanno probabilmente “agendo basandosi su vecchie dinamiche.” L’acquisto al ribasso durante tutta l’era dell’allentamento quantitativo è stato sostenuto dal motto “Fede nella Fed”: la convinzione che qualsiasi minaccia alla stabilità del mercato azionario conduca a una reazione da parte della Fed, il che porta ad un aumento delle valutazioni degli asset di rischio. Una Fed meno reattiva porterà alla fine a incrinare tale fede, in particolare tra gli investitori retail, le cui convinzioni sono state indubbiamente già messe a dura prova dalle performance decisamente deludenti registrate durante la rotazione da growth a value (Figura 2).

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Per essere chiari, questa nota non è né rialzista né ribassista. Come ha scritto Gordy circa l’azionario, “storicamente, in media, i contesti come quello attuale sono in genere stati seguiti da risultati positivi.” E, come sottolineato dal gestore obbligazionario Rob Burn rispetto alla performance storica delle obbligazioni societarie high yield statunitensi, con l’avvicinarsi dei cicli di rialzi della Fed, “gli spread non solo si sono contratti fino al primo rialzo, ma anche dopo il primo rialzo hanno generalmente continuato a registrare modeste contrazioni.”

Tuttavia, con le questioni macroeconomiche di vasta portata che incombono sui mercati, è probabile che la liquidità continui a contrarsi e la volatilità ad aumentare. Per citare Gordy:

La lista di fonti di incertezze macroeconomiche da citare è lunga e pertanto ci è facile credere che la convinzione rispetto alle negoziazioni di mercato sia estremamente modesta e potenzialmente soggetta a inversioni anche nell’arco di una stessa giornata. Quando la liquidità si contrae, ogni negoziazione assume un impatto maggiore. Pertanto, visto i repentini mutamenti a livello di sentiment sul trading, frequenza e ampiezza maggiori delle oscillazioni di prezzo infragiornaliere rappresentano una conseguenza naturale

Nel pieno del cambiamento di regime, è probabile che la chiave alla sovraperformance sia meno legata a definire previsioni sul futuro e maggiormente determinata dal porre le giuste domande. Quali modelli, ipotesi e scorciatoie adottate durante lo status quo post-grande crisi finanziaria vanno ora rivalutate? Quali asset saranno vincenti se il cambiamento di regime spingerà al rialzo i premi al rischio e indurrà gli investitori a cercare nuove strade per diversificare? In che modo gli investitori potranno far fronte alle loro paure e ai loro bias, rimanendo al contempo convinti delle loro conclusioni radicate nei fondamentali? L’analista Eunhak Bae ha recentemente condiviso il mantra di un vecchio mentore che continua a ripetere: “Il rischio reale è inversamente correlato al rischio percepito.”

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